Era forse la seconda volta che entrava in quello squallido ufficio. Il carcere era di recente costruzione, eppure vi si respirava odore di paura, di terrore; era odore di morte e a questa non si fa mai l’abitudine. E lì la si respirava. Si respirava e se ne inalava il puzzo. Lì, era impossibile non ascoltare la morte dentro di sé.
Gargiulo rimase in piedi di fronte al direttore che, immerso in scartoffie impilate caoticamente, non si degnava nemmeno di guardarlo.
Riferì esattamente, parola per parola, le frasi che aveva sentito pronunciare dal detenuto della cella n. 57, ed aggiunse che, a suo parere, qualcosa gli suggeriva che avesse detto la verità.
Il direttore tirò su la testa per guardarlo in faccia. Probabilmente era la prima volta che lo vedeva. Senza togliere di bocca lo stuzzicadenti, peraltro arrossato dal sangue di un ascesso non curato, parve colpito dall’accento delle parole di Gargiulo, piuttosto che dal loro contenuto.
«Spaghetti, mafia e mandolino, eh?» Disse, continuando a trastullarsi la bocca con quel piccolo e nauseabondo pezzo di legno vittima ormai agonizzante di una miscela di pus e sangue.
Gargiulo era allibito. Non sopportava quelle parole nei confronti degli italiani, ma ora non riusciva a prendersela. Era piuttosto impressionato da quello che stava davanti ai suoi occhi. In quella immagine, vedeva la sua stessa fine, il suo destino, il suo futuro. Era una immagine disgustosa, che rifletteva ciò che quell’uomo era diventato. Abbrutito, nefando, carico di disumanità, intossicato da quell’odore… odore di morte!
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