Emma Saponaro: Sopportare per sopravviere

Intervista rilasciata a Convenzionali
Ringrazio, in particolare, Gabriele Ottaviani.

INTERVISTA

di Gabriele Ottaviani

Convenzionali ha il grande piacere di intervistare Emma Saponaro, autrice di Come il profumo.

Da dove nasce questo romanzo?

Come il profumo nasce in un momento della mia vita molto intenso sotto l’aspetto sia emotivo che affettivo. Non ho fatto altro che travasare alcuni miei stati d’animo sulle pagine di un quadernone, vestendoli di abiti diversi e inventando storie. Poi mi sono fatta prendere la mano, vittima io stessa di altre emozioni suscitate dagli stessi personaggi che avevo creato. Per trasmettere emozioni al lettore, se le si vuole trasmettere, io credo che non ci si possa limitare alle parole, alle descrizioni, ma sia necessario ricorrere ai fatti, alle storie. Creare la giusta atmosfera per accendere la commozione o la rabbia, o comunque la curiosità, e il desiderio di voltare un’altra pagina ancora. Se è accaduto per me spero che accada anche con chi mi leggerà. Tornando allo specifico della domanda, posso dire che l’idea guida che mi ha ispirato fin dall’inizio è stata lo studio attento della persona, delle sue potenzialità che si scontrano con le vicissitudini della vita. Ho intrecciato vite diverse e mi ci sono addentrata, immedesimandomi a tal punto da comprendere anche l’ingiustificabile: dovevo! In fondo il mio è un romanzo sul coraggio, sull’esortazione al cambiamento, è una insurrezione contro l’accettazione passiva di un fantomatico “destino”. È anche la raffigurazione del conflitto tra un fato avverso, un ambiente tossico, una famiglia criminale, un background angoscioso, da una parte, e la non-accettazione di ciò che il fato vorrebbe imporre. Forse non ce ne accorgiamo, ma tutti abbiamo la possibilità di scegliere, tutti abbiamo la possibilità di appropriarci di una vita diversa, una vita migliore.

Chi è Cecilia?

Cecilia, Cecilia… Quanto mi ha fatto penare, Cecilia. Sai che prima di darle questo nome l’avevo chiamata Rebecca e poi Giulia e poi non so come altro ancora? Nulla, lei non rispondeva. Poi nel cuore di una notte mi svegliai all’improvviso e gridai: “Cecilia!”. E Cecilia fu. Solo per dire come il protagonista di un romanzo sia molto importante per il suo autore, che un po’, in un certo senso, gli è genitore. Genitore di un personaggio che spesso si materializza nei suoi pensieri. Così è importante il suo nome, come lo è il carattere, il comportamento, l’educazione, com’è vestito. Credo che noi scrittori siamo un po’ tutti Geppetto con il suo Pinocchio: diamo forma umana a ciò che è irreale, immaginario, e che poi può sfuggirci di mano, può disobbedirci, combinarne di tutti i colori, ma nonostante ciò ne saremo sempre fieri. Cecilia è una donna che si ribella all’invadenza della famiglia e lotta per la sua indipendenza, pur rinunciando alle sue stesse aspirazioni come una laurea ormai prossima e una carriera da psicologa. Tuttavia, questa battaglia dovrà apparirle come un nonnulla, rispetto a quello che la attenderà una volta diventata madre. In definitiva, Cecilia è una figlia ribelle, un’amante fragile, una donna romantica e una madre coraggiosa. Basta, di più non farmi dire.

Chi è Leila?

Leila è una bambina spigliata, sensibile e con un coraggio che saprà dimostrare, malgrado gli inevitabili momenti di tristezza e di sconforto, nel momento in cui si troverà ad affrontare una vicenda tragica. Vedi? Anche i bambini sanno essere coraggiosi. Leila è una bambina cresciuta nell’amore incondizionato di una famiglia monogenitoriale, il che va sottolineato perché le circostanze la porteranno a rapportarsi in modo intenso con una coetanea, ne nascerà un confronto e da questo la dimostrazione che il “due è meglio di uno” a volte non funziona.

 

Cosa significa essere genitori?

Si diventa genitori all’improvviso e benché si sia avuto il tempo di informarsi, confrontarsi, progettare, fantasticare, quando nasce tua figlia o tuo figlio ti accorgi che è tutto completamente diverso da come lo immaginavi. La prospettiva cambia: sei passato dallo stato di figlio a quello di genitore. Un bel salto, direi. Con la nascita, si dovrà trovare un nuovo assetto familiare, sia per salvaguardare la relazione di coppia che per includere il figlio nel rapporto di amore. Essere genitori significa acquisire un nuovo ruolo, più responsabile, più generoso. È necessario rendersi sempre disponibili per la crescita sana del proprio figlio, che quanto più è piccolo tanto più dipenderà fisicamente e psichicamente dalle cure e dalla vicinanza dei suoi genitori. È la fase dell’attaccamento, indispensabile ai fini di una crescita sana. Man mano che il bambino cresce, assumerà maggiore importanza la sua relazione con le figure genitoriali per la costruzione del proprio Io e quindi della propria identità. Per l’importanza del loro ruolo, quindi, non è affatto semplice essere genitori, o almeno, genitori consapevoli e responsabili. Se poi parliamo di famiglia monogenitoriale, come nel caso di Cecilia, i problemi raddoppiano. Non si possono condividere le preoccupazioni e le gioie, né le aspettative e le decisioni da assumere per il proprio figlio. Si è soli. Dimmi che non sono stata noiosa…

Assolutamente no, tutt’altro. Come si elabora una perdita?

Questa è una domanda impegnativa, molto impegnativa. Ma rispondo lo stesso, anche perché ho dovuto rispolverare i miei studi durante la stesura del romanzo, posto che una parte di questi era incentrata proprio sul concetto di perdita. Se si parla di perdita come separazione, come fine di una storia d’amore, l’elaborazione inizia con la negazione, ossia con il rifiuto del nuovo stato. Chi è quel masochista che gioisce se viene mollato, magari via WhatsApp? Bauman docet… Ci piomba il mondo addosso. Nulla più ci interessa, nulla più ha un senso e siamo presi dall’angoscia. Tranquilli, dopo qualche giorno ci accorgiamo che la vita sta andando avanti lo stesso, e quel senso che ci sembrava di non trovare più in niente e in nessuno dobbiamo recuperarlo altrove, per restituirlo a noi stessi (se volete ancora continuare a piangere, fermatevi su questo punto per qualche altro giorno). Quando si scopre che il mondo sta andando avanti anche senza di noi, è il momento della rabbia. Ci sentiamo forti, pieni di energia. Ma non c’è da illudersi troppo. Deve passare altro tempo per poter riscoprire la gioia, sentirsi veramente, se non proprio forti, almeno in forma. È negativa, infatti, questa energia interiore che ci fa sentire forti come un leone, sì, è negativa, perché nasce dal senso dell’abbandono, perché quel leone è un leone offeso. Quindi, alla larga dalla rabbia, da questa rabbia. Continuiamo a pensare al passato, alle nostre scelte, ai nostri comportamenti, e ci affligge un dubbio: se avessimo agito diversamente, la nostra storia si sarebbe salvata? Ecco, sta per innescarsi il meccanismo dell’auto-denigrazione: non è proprio il caso di colpevolizzare sé stessi. Attenzione! Si corre il rischio di avvilupparsi totalmente, di rimanere ancorati al passato. Finalmente, così, arriva il momento del dolore. Non c’è da averne timore: il dolore non guarisce ma depura, disintossica. Non si deve mai dimenticare che, per elaborare il lutto, non c’è bisogno di evitare i posti frequentati insieme, né di allontanare i ricordi della persona perduta; il dolore in questi frangenti fa bene e aiuta a riflettere, ad elaborare. Smettere di piangere e guardare il punto in cui ci si trova: si è davanti a un bivio. Bisogna solo scegliere se continuare a soffrire per la perdita oppure tornare a vivere, anche meglio di prima, con la convinzione di essere fantastici e di poter bastare a sé stessi. L’accettazione del nuovo stato è il traguardo naturale. Ci si arriva quando si riesce a comprendere che noi e solo noi siamo l’unica persona indispensabile per noi stessi, a riconoscere dentro di sé le giuste risorse per poter ricominciare. E ricominciare, cioè mettersi nella condizione di poter vivere nuove esperienze e intraprendere conoscenze nuove che man mano prenderanno il posto di quelle finite, con il loro carico di dolore. Altra storia è l’elaborazione della perdita di un figlio, qui non è davvero il caso di ironizzare. I passaggi sono sempre gli stessi: dallo stordimento e l’incredulità, alla rabbia, al dolore e infine alla fatale accettazione della perdita; una perdita del genere, però, è innaturale, e inaccettabile da vivere. L’istinto iniziale di rifugiarsi nella propria sofferenza fisica e psicologica, in questo caso, è più invadente, al punto di potersi trasformare in una chiusura psichica totale, accompagnata dal desiderio di non sopravvivere o comunque dalla convinzione di non farcela. È facile cadere in disturbi che ostacolano l’elaborazione del lutto, come la depressione, una scarsa cura verso sé stessi e gli altri, l’insonnia, l’inappetenza. Qui non si tratta di accettare, perché la perdita di un figlio non è accettabile. L’obiettivo massimo non può essere che quello di riuscire a sopportarla, per tornare a vivere.

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