Stile libero

Quarto racconto, oggi ispirato al tema della sonorità della scrittura, è frutto dell’ultimo incontro di “Scritture Urbane” con Paolo Melissi e Angelo Orazio Pregoni.

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Continuava ad arrotolarsi tra le dita una ciocca della folta chioma riccia, posando un vago sguardo corvino oltre il vetro della finestra nell’immenso azzurro salino.

Seduta a gambe incrociate su una sedia stridula della cucina, davanti a una cioccolata ormai freddata, Priscilla era così raggomitolata da un’ora. Assorta, non smetteva di far scivolare la ciocca di capelli già allisciata tra l’indice e il medio: un vizio che nella sua vita aveva placato bizze infantili, inquietudini adolescenziali, dubbi esistenziali. Di lasciarlo, quel vizio, non se ne parlava proprio. Eppure, ora, non riusciva ad ammansire la sua… ansia? Sì, forse era ansia.

Aveva trascorso i suoi primi trentacinque anni in un piccolo borgo pettegolo sulla costa calabrese, quella tra la punta e il tacco: la Costa ionica. Sposata in età acerba, aveva poi avuto il buonsenso di fuggire dalla casa coniugale ancora fresca di vernice, portando via con sé non solo lividi e botte ma anche il seme delle nozze, Giovanni.

Non avendo uno stipendio su cui contare, si era adattata a fare la cassiera del bar centrale (di quel piccolo borgo pettegolo). D’estate il tempo passava rapido come un treno del Nord: quattro chiacchiere con i turisti, una battuta, un caffé, un po’di mare, ma nei mesi invernali il paese si chiudeva su sé stesso, cadeva in letargo, e tutto era ovattato e attutito.

Solo i locali, semplici e grossolani.

Le comari entravano al bar starnazzando in preda a una indecente voglia orgasmica di sparlare di questo o di quella. Insolenti, arroganti e maligne, davano sfogo alle invidie covate, quelle più amare, che di amare non erano capaci.

Così blateravano e lanciavano ingiurie a coloro che ritenevano esser colpevoli secondo le loro arbitrarie e ingiuste sentenze. Parlavano male del carrozziere, sorpreso a fumar marocco, o della peccaminosa cartomante, rea di ospitare forestieri nel suo appartamento.

Farfugli delle comari: frullavano parole per il gusto di bersagliare con polpette rabbiose. Donnette, poverette!

Ora fissava il mare, Priscilla. Una mano presa ad arrotolare ciocche e l’altra a stringere una raccomandata che aspettava da più di dieci anni di concorsi persi: posto fisso in una città del Nord. Basta l’apertura di una busta a cambiar musica alla vita. Ma ora, ora guardava oltre quel vetro, e tra i pensieri azzurri vedeva già la nostalgia per quel piccolo borgo pettegolo. Sentiva già la mancanza di Giovanni che per il momento sarebbe rimasto a casa dei nonni. E quelle chiacchierone in fondo non erano così importanti. Le comari, si sa, quando non hanno nulla da fare trovano assai allettanti quegli esercizi poco impegnativi di puntare il dito sul poveretto di turno e ricamare fiori fallaci sui suoi sbagli.

Bisogna fare i bagagli!

Arrivata alla stazione della nuova città, Priscilla si sente piccola, indifesa e sola. Tanta diversità alla quale sa che dovrà presto abituarsi.

Scale da scalare, corridoi da attraversare, la direzione da individuare. L’orchestra è cambiata, se n’è presto accorta. La musica urbana è assordante, gli strumenti emettono suoni frenetici e martellanti: i fischi della stazione, le voci degli annunci, il rumore delle rotelle dei trolley (in paese era un assolo e qui un coro), il via vai delle persone e il vai via a un mascalzone.

Esce dal caos della stazione, però il ritmo convulso non cessa, non cambia. Insegne intermittenti, luminose e colorate, il frastuono dei trasporti, il rumore dei tram, ram ram ram, e il trantràn di questa vita di città, i pneumatici stridenti sull’asfalto, i clacson, cson cson cson, i sibili acuti dei mezzi d’urgenza e i rombi del motore dei bus e dei tir. Che orrore!

C’è un sottopassaggio. Priscilla, coraggio! Scale mobili da affrontare, con la paura della prima volta. Volta la testa in cerca di una soluzione. Non c’è un ascensore? Una scala normale? Non c’è verso, deve arrendersi e affrontare quelle scale roboanti, mai viste di ferro e neanche rotanti. Prima lei o i bagagli? Un ragazzo la guarda, si accorge del suo impaccio, si avvicina e le porge una mano per rassicurarla. Lei è diffidente, accetta ma finge di essere aperta, serena e contenta.

Non è difficile.

Sale e gusta la sensazione.

Si adagia, si placa, si abbandona e chiude gli occhi.

Pensa, sogna e ricorda il problema della sua timidezza. Si rilassa un po’ di più. Respira contando i secondi. In quello spazio ristretto lei si sente al sicuro. Sulla scala mobile non ti affianca nessuno e nessuno ti può guardare da destra né da sinistra. Come nella corsia. Nella corsia della piscina.

Quando nuotava da bambina.

Allora, la piscina era la soluzione. La piscina era il suo guscio.

Tuffarsi in vasca, infrangere il silenzio dell’acqua e giocare un po’ tra lo sciabordio del tuffo e il gorgoglio dell’angolo idromassaggio. Avverte l’odore del cloro come se fosse lì, brucia gli occhi, ricorda.

Inizia a nuotare, Priscilla. Stile libero. Ogni bracciata è un abbraccio alla vita mite e uno schiaffo alla vita ostile. Scivola in quell’acqua color anice, Priscilla, espira, inspira, espira, inspira. Abbraccia e schiaffeggia l’acqua che sfiocca. Si gira, poi sguscia, e l’acqua la fascia, l’avvolge e riavvolge.

Cambia posizione, Priscilla.

Supina, morto a galla, inizia il dorso e il suono diventa più intimo: tutto ovattato, attutito, ascolta solo il suo respiro, potente e dilatato. Entra in contatto con sé stessa. Si sente, si guarda, si vede. È dentro un grande guscio, caldo come un grembo materno. Ascolta solo il suo respiro, ovattato e attutito. Il mondo è fuori, lontano, con i suoi rumori. C’è solo Priscilla. Priscilla e il suo respiro.

È arrivato. Il coraggio è arrivato, e cambia stile.

Libero!

Emma Saponaro

pubblicato su Satisfiction

Rumore

Altro esperimento, stavolta si tratta di un racconto surreale. Ma questo è un dettaglio inutile 🙂

buona lettura

Dieci gocce un’ora prima di andare a letto.
Tutto qui.
La visita era stata troppo breve e il dottore troppo sbrigativo perché capisse. Capisse veramente.
Come se potessero bastare dieci gocce di un blando sonnifero a rendere fluide le mie notti. Neanche un bidone di quella roba mi avrebbe concesso il canale dei sogni: addormentarmi e riaprire gli occhi con il sole. Vivere.
Lo avevo fatto solo per mio marito, Giangregoriovittorio. La sua premura irrita come la bellezza ingannatrice di una medusa, e al quinto invito insistente avevo demolito ogni argine di resistenza.
Dieci gocce è la soluzione. Non è la soluzione in gocce a guarire. Glielo avevo detto a Giangregoriovittorio, ma lui mi guardava con occhi sabbiosi che insabbiavano ogni mia obiezione.
Sposati da più di venti anni, Giangregoriovittorio ed io vivevamo in simbiosi amniotica, e ci sguazzavamo. Non c’era bisogno di parlare: conoscevamo l’uno dell’altra ogni grinza della nostra esistenza, ogni crespa delle nostre emozioni, ogni moto viscerale delle nostre anime stropicciate. Confidavo in lui, mi fidavo, tuttavia non si immerse nel cristallo del mio torrente per provare a sentire quel che sentivo io, là sotto. Non riusciva a spiegarmi quello che di me io stessa non comprendevo, ma sapevo.
Allora, cominciai.
Cominciai a esternare, e l’esterno mi tornò addosso come un boomerang di osso. Lo assodai.
«Non riesco più a pronunciare il tuo nome. È duro, stride nella mia testa. Ghghgh Tttt! Da oggi ti chiamerò Orio. Senti? Scivola via dolce come un dolce vischioso e fluente. Perfino il miele sarebbe troppo denso».
Orio non batté ciglio né si accigliò. Lo conosco bene e so per certo che stava impegnandosi per trovare la soluzione. Non gocce di soluzione.



Quel giorno in cui svuotai il sacco mi sentii un sacco svuotato: un corpo senza scheletro. Rimasi a letto tutto il giorno bevendo latte fino a sera, quando Orio rincasò con la soluzione: un disco, il buon vecchio vinile. L’assenza di etichetta rivelò il suo pregio. Curiosa, corsi a rispolverare l’impianto Hi-Fi con l’arte accurata riservata alle celebrazioni più importanti. Mi assicurai la pulizia della puntina, adagiai l’ellepì e, su invito di Orio, mi sdraiai sulla chaise longue, in attesa.
Il disco iniziò a girare. Il braccetto, prima in alto in movimento, si abbassò fin quando la puntina toccò il vinile. Eccitante!
Tre Due Uno…
Che bomba!
Ogni rumore si smorzò mano a mano che lo stereo diffondeva immobilità acustica. L’onda del suono muto si infranse sul nascere. Interruzione di frequenza. Frequenza zero hertz. Onda piatta. Silenzio. Tutto ovattato. Di più. Ammutolito. Il disco di suono muto spazzava ogni residuo di vibrazione. Non un fruscio, non un brusio, non un sospiro. Silenzio.
Funzionava.
Funzionava tutto.
Silenzio nel salotto. Ogni cosa era zittita. Ogni oggetto taceva. Anche il campanile echeggiava potenti rintocchi taciturni.
Orio mi scrutava con un sorriso ammiccante, aspettando un piccolo segnale.
«Grazie, Orio, ne avevo un gran bisogno», dissi muta. Lui comprese e mi lasciò sola con la mia quiete.
Un orgasmo mentale fluì intimo, affogando l’ascolto nel volume al massimo di quegli altoparlanti già di duecento watt.
I pensieri ripresero il loro corso: come al Corso, illuminati dalla fila di lampioni spenti. Le distorsioni là fuori si allontanavano smorzate dalla sordina del mio disco, e al suo improvviso mutar del suono aumentò il timbro che l’appuntato aveva apposto alle denunce.
Vennero a bussare i vicini di casa viola dalla rabbia, avendo io violato l’articolo seicentocinquantanove del codice penale: disturbo della quiete pubblica.
Rimasi turbata: ero io la disturbata!
Si lamentavano tutti della stessa cosa: dall’assordante silenzio emergono scomodi pensieri, ingombranti riflessioni e una insostenibile coscienza.
Coscienza.
In un baleno, mi balenò l’idea non banale di acquistare su Amazzone una serie di ripetitori autoriproducenti. Appena disseminati per il quartiere, quelli si riprodussero come Blob, il fluido mortale che, se non fosse per Steve McQueen, la gelatina verde avrebbe inglobato l’universo intero. Così, in poco tempo, i ripetitori di silenzio avvolsero la città, il Paese e poi la terra tutta e tutti giù per terra.
Dopo i vicini vennero a bussare i condòmini in processione per processare il silenzio generatore di coscienza: chi sentiva male fisico, chi non riusciva più a peccare.
Bussarono poliziotti e carabinieri: non avevano più nulla da fare se non difendere le aiuole dalle pisciatine dei cani.
Bussarono gli avvocati: chiedevano il reddito di cittadinanza per andare avanti.
Bussarono i politici: chiedevano un aumento salariale e invocavano una riduzione dell’orario di lavoro. Non erano abituati a tutto quel tempo passato in Parlamento. Fu in questa occasione che nacquero: matrimoni intraparlamentari, i comizi per non farsi eleggere e le leggi eque e ad populo.
Bussarono i preti: innamorati, con i/le loro bell*, sfilavano alla luce della notte tutto il giorno. Avevano, tuttavia, perso la favella e non avendo di che predicare trascorsero il tempo in fila all’agenzia delle entrate insieme ai disonesti e ai truffatori.
I disoccupati vennero occupati. Assunti come Persuasori, sostenevano i più fragili e impedivano a coloro che non sopportavano il peso della coscienza di fare una brutta fine.
Brusio. Ronzio. Frastuono.
Lo sconquassamento sconsiderato scandito da scosse scottanti.
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Pietà.
Mi chiamo Amaldrude ma, vi prego, chiamatemi Ama.

Emma Saponaro

Pubblicato ieri su Satisfiction

Ri-corda

Il mio secondo racconto per SCRITTURE URBANE, condotto da Angelo Orazio Pregoni e Paolo Melissi, in collaborazione con Satisfiction, rivista di critica letteraria.

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Ri-corda

Mi addormento con lei. Mi risveglio con lei. La guardo e sorrido. Sempre. È la stessa storia da sempre. Una storia nostalgica, infantile: è una storia che fa sorridere.

Nostalgia infanzia sorrisi e sorrisi infanzia nostalgia. Note banali legate come dei lacci nella memoria. Al loro slegarsi il ricordo può presentarsi un po’ ammaccato da orme profonde per le pesanti vicende oppure vestito a festa, agghindato con gemme di spensierate o fastose reminiscenze.

I ricordi arrivano. Arrivano e basta. Non chiedendo il permesso. Vivono di vita propria, anche quando sei convinta di nuotare nel loro flusso. Illusione. Illusione rumorosa, illusione ridondante.

Selezioni i ricordi più belli con l’ambizione di renderli reali e immortali, tenti di afferrarli, vorresti catturarli, sigillarli. Poi, la vibrazione ti arriva alla testa e ti appare chiaro quello che non avevi considerato: la nostalgia.

Così, i ricordi piacevoli diventano tristi. E poi ci sono quelli tristi tristi, talmente tristi da essere insopportabili. Ti spaventano. Cerchi di allontanarli. Vorresti diluirli come pennelli imbrattati nell’acquaragia. L’acqua tinta di rosso, le setole pulite, morbide come il pelo di un persiano. Eppure, sai bene che i ricordi più tristi sono inestinguibili. Tornano e torneranno: sarai soprappensiero, starai contemplando la bellezza di una camelia sbocciata. Avrei potuto dire la bellezza di un tramonto, ma sarebbe stato banale. Banale? Cosa c’è di più tremendamente bello di un tramonto. I colori infuocati declinano e risorgono oltre il visibile. Un moto bifronte e simmetrico, negativo e positivo, un moto eterno che prende e concede. Che muore e risorge. Dove si posa il buio si origina luce.

Ri-corda.

La corda che unisce e stringe, che lega e soffoca. Ricorda anche se vuoi dimenticare. E più vuoi dimenticare e più quelle immagini ti travolgono costringendoti a guardarle meglio.

Si dice che le scatole racchiudano i ricordi. Io ci credo.

Ogni volta che compro un paio di scarpe devo dormirci accanto.

Accanto alla scatola delle scarpe che ho appena comprato.

Mi addormento con lei. Mi risveglio con lei.

Eccola là la mia scatola. Accanto al mio letto, là per terra. La scatola bianca, o gialla o nera o blu. Il colore non è importante, lo è il contenuto.

Capisco. Ora capisco.

Aspettavo i miei otto anni con trepidazione e non per lo stesso motivo delle mie amichette. Aspettavo gli otto anni perché finalmente avrei potuto togliermi quelle orribili scarpe ortopediche. Che tortura! Di cuoio, alte e nere, sempre uguali negli anni e anche nelle stagioni. Di cuoio, alte e nere anche d’estate. Negli anni Sessanta non c’era scelta. Quelle e solo e sempre quelle: di cuoio, alte e nere. In genere erano prodotte artigianalmente.

Il nostro fornitore si trovava nei pressi di Trastevere. L’unica parte lieta, in quel contesto, era il disegno di un adulto.

La mamma mi prendeva in braccio e mi metteva in piedi sopra un tavolo di vetro. Il signore del negozio guardava da sotto il tavolo, guardava i miei piedi, come li appoggiavo. Poi mi faceva salire sopra un grande foglio bianco e con una penna ricalcava la forma sulla carta. Un solletico bianco diluiva il grigiore di quel laboratorio…

Allora non lo capivo, tuttavia crescendo quelle brutte scarpe diventarono una etichetta: un marchio che contrassegnava i bambini con un difetto da correggere.

Di inverno la neve bianca rendeva la sofferenza un fiocco, ma arrivando la bella stagione le compagne sfoggiavano le Canguro, saltellavano con le ballerine, giocavano alle finte schiave con i sandali alla schiava.

Volevo abbandonare le orribili calzature.

Poi ricordo quel giorno. Mia madre mi portò a passeggiare per via del Corso. Non sapevo il perché. Ci piantammo davanti a una vetrina di calzature: fiorivano colori dietro il riverbero del vetro e io guardavo con gli occhi golosi di quelle scarpe come fossero cioccolatini, pasticcini e bignè. Ricordo esattamente quel momento. Non chiedevo. Lei non diceva. Avevo capito, ma non osavo dire.

Se mi fossi sbagliata?

Tutte e due in silenzio.

Oggi penso alle sensazioni di mia madre. Alla gioia di render felice la figlia. Al suo magone che viaggiava su binari paralleli ai miei.

Ancora silenzio.

«Scegli quelle che vuoi, Emma».

Era primavera inoltrata e scelsi i sandali più colorati della vetrina. Erano viola come le viole e con un grappolo di chicchi di paillette sul dorso del piede.

Da allora, non ho altri colori preferiti. Da allora ho dormito e continuo a farlo con accanto la scatola delle scarpe appena comprate.

Mi addormento con lei. Mi sveglio con lei. E ci chiudo dentro i miei sogni.

Emma Saponaro 

Chiudi gli occhi

Come scrive Angelo Orazio Pregoni, questo è un thriller tra preziose sete e sete di vendetta, frutto del primo laboratorio web di SCRITTURE URBANE, condotto dallo stesso Angelo Orazio Pregoni e Paolo Melissi, in collaborazione con Satisfiction, rivista di critica letteraria.
Accetto le sfide, questa è andata. Aspettiamo il secondo incontro di domani che verterà sulla poetica.

Nino aveva aperto, senza bussare, la porta che dalla sua casa al primo piano conduceva direttamente alla bottega di stoffe, proprio nel momento in cui il pendolo rintoccava dieci colpi. Colpi che aveva percepito abbattersi sul suo piccolo torace, talmente forte il cuore aveva preso a colpirlo. La scena che si aprì davanti ai suoi gli diede la sensazione di aver perso sé stesso.

Questa era l’unica certezza che gli era rimasta. Essersi perso.

Sono trascorsi venti anni e ogni cosa è rimasta al suo posto, sepolta sotto uno strato di polvere che sembra aver sigillato i ricordi e l’odore. Odore di tradimento. Odore di ipocrisia. E la scia di quel fetore si incolla al palato di Nino. La sua gola è secca, e gli sembra di ingoiare sale grezzo.

Non è stato difficile ingannare Vittorio: una telefonata fingendosi un agente immobiliare e la proposta allettante di svendergli il vecchio negozio di tessuti. Non un negozio qualunque. Non tessuti normali. Quei tessuti. Un tempo sua alcova del venerdì sera. Nino ha lanciato l’illusione e il signor Vittorio l’ha afferrata.

L’ha afferrata per poi perderla di colpo, quando Nino, senza quasi guardarlo in faccia, dopo averlo invitato a scendere giù, nel sottoscala, approfittando della penombra, con la rapidità di un proiettile lo ha bloccato dalle spalle: la mano sinistra preme una lama gelida sulla carotide e la destra pigia sulla bocca e sul naso uno scampolo di stoffa inumidita con una sostanza narcotizzante, quel tanto da fargli perdere coscienza per il tempo che gli serviva.

Chiudi gli occhi

Te lo ricordi, vero? Ricordi queste parole? Di’, le ricordi?

Chiudi gli occhi.

Dai, non fare il timido. Basta muovere la testa: o sì o no. Non è difficile. Ma certo che te le ricordi, come puoi aver dimenticato le parole che hanno segnato il principio della nostra sofferenza!?

Chiudi gli occhi.

Poveri scemi. Davvero credevate bastasse chiudere gli occhi per cancellare quella scena schifosa? Avvinghiati, nudi come viscidi lombrichi. Avevi usato questa stoffa qui, seta giapponese. Te la ricordi? Le avevi legato i polsi e le caviglie e poi la sbattevi da dietro. Schifo schifo schifo. Puzzavate di un odore che non potevo distinguere. Non ancora.

Trafitto dalla insopportabilità di quella scena, sono bastati pochi istanti per registrare tutto. Tutto tutto. Come uno scanner. Una macchina. Mi ero già trasformato. Avevo già perso tutto. Avevo perso me stesso. Sì già l’ho detto. Nel tempo infinitesimale, anestetizzato dal bagliore di un flash. Cieco. E sordo. E inerme. Tuttavia, dentro sentivo la ferraglia assordante della rabbia che comprimeva. Poi non ricordo più nulla. Ricordo di essere diventato adulto in quella notte. Le carezze rassicuranti e nutrienti si sono sgretolate nella pozza del vostro fango.

Però io ti ho riportato qui, caro il mio Vittorio. Qui, dove vi incontravate ogni venerdì. Altro che conti, come diceva la puttana. I conti li veniva a fare con te.

Fino a quando.

Fino a quando sono arrivato io, il guastafeste.

Era talmente eccitata quella puttana che distrattamente aveva lasciato aperta la porta. Un errore imperdonabile.

E mio padre sopra, ignaro. Poveretto, che riposi in pace. Lui, dopo che la puttana aveva deciso di venire via con te, ha provato a tirarmi su senza di lei, ma non ce l’ha fatta ed è schiattato.

Pensavate di cavarvela, te e quella, chiudendomi in un collegio. Bambino strano, aveva detto. Strano? Strano era il riflesso delle vostre scelleratezze. Eppure, avete fatto l’unica cosa giusta, perché ho imparato tante belle cose, sai? Non in collegio. Dopo. Riformatorio, carcere. Non guardarmi così. Ne ho fatte tante.

Stai iniziando a capire, vero?

È che ero piccolo, molto piccolo. Troppo. La rabbia mi ha nutrito e non mi ha più lasciato in pace, o forse sì. Forse. Sai, in certi gesti provo gusto. Gusto e sazietà. Sazietà e bisogno. E poi pace.

Per anni, ho pensato solo a questo, alla vendetta, prima, al modo di completarla, dopo, anche se non credevo di trovarti così presto. Hai capito, no!? Ho iniziato con la puttana, devo finire con te.

Perché? Pensavi veramente si fosse suicidata, quella? Troppo vigliacca. Riuscire a farle scrivere un biglietto di addio indirizzato a me, solo a me, e appenderla con la cinta di mio padre a questo gancio è stato facile come una partita a dama, un gesto che ha caricato di fierezza l’instabilità dei miei quattordici anni. Ansimava, la puttana, annaspava. Non guardarmi così. Già vi eravate lasciati, no? Comunque, faceva talmente pena che ci avevo ripensato, sai. In fondo è sempre mia madre, avevo pensato. Mi ero lanciato per sollevare lo sgabello e farle poggiare i piedi, ma… Era cianotica e aveva già protruso la lingua. Uno spettacolo ridicolo! Stava così, guarda. Era talmente buffa che sono scoppiato a ridere. Tanto qui non ci sente nessuno, tu lo sai. Calmati. Non guardarmi così. È stato facile. Alleggerirsi dalla rabbia è una necessità. La rabbia fa male, caro il mio Vittorio.

Non dimenarti. Finirai per morire soffocato. Cristo santo!

Non guardare il coltello. Non so ancora come ti ucciderò. Però ora devo appendere anche te. Stesso gancio, sei contento? D’accordo, con la tua stoffa preferita, la seta giapponese, però ti appendo dai piedi. Ti ho detto di respirare lentamente, perdio!!! E non dimenarti, lo sai che è peggio.

Ecco. Ora sì che mi piaci. Secondo te, a cosa serviva questo gancio? Giusto, giusto, scusa, non puoi rispondere. Beh, non so a cosa serviva, ma a me è stato utile almeno due volte. Fatti guardare. Sei bello, sai!? Sembri un bozzolo gigante di farfalla. Ti ho fasciato proprio bene. E che colori. Belli sono belli. Sì. Sono proprio bravo.

Sei pronto?

Basta. Basta, ho detto.

Fermo. Stai fermo. Così mi faccio male anche io.

Ora mi hai rotto. Basta!!! Crepa, maiale!

Tieni. Questa è per mia madre. E questa per mio padre. E un’altra, un’altra, e un’altra ancora. Ah che leggerezza, che sollievo. Facile anche con te.

Ci vediamo domani. Ora pensa a dissanguarti. Come i maiali.

Pulire tutto ciò che ha toccato è togliere traccia di peccato, liberarsi la coscienza. Ha lasciato solo la pozza di sangue aumentare. A quella e al maiale penserà domani. Risale lentamente la scala che porta alla bottega. La porta d’ingresso è socchiusa. È solo una coincidenza. Una fottuta coincidenza. Qualche colpetto di tosse per normalizzarsi ed esser pronto ad aggredire quella maledetta vita là fuori. Tuttavia, ha la sensazione di non essere solo.

Una figura controluce si sta avvicinando con calma, molta calma, fino poterne distinguere i lineamenti. I lineamenti di un volto visto forse un paio di volte ma che appartengono solo a una persona… Vittorio!!!

Chiudi gli occhi

Emma Saponaro