Il mio secondo racconto per SCRITTURE URBANE, condotto da Angelo Orazio Pregoni e Paolo Melissi, in collaborazione con Satisfiction, rivista di critica letteraria.
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Ri-corda

Mi addormento con lei. Mi risveglio con lei. La guardo e sorrido. Sempre. È la stessa storia da sempre. Una storia nostalgica, infantile: è una storia che fa sorridere.
Nostalgia infanzia sorrisi e sorrisi infanzia nostalgia. Note banali legate come dei lacci nella memoria. Al loro slegarsi il ricordo può presentarsi un po’ ammaccato da orme profonde per le pesanti vicende oppure vestito a festa, agghindato con gemme di spensierate o fastose reminiscenze.
I ricordi arrivano. Arrivano e basta. Non chiedendo il permesso. Vivono di vita propria, anche quando sei convinta di nuotare nel loro flusso. Illusione. Illusione rumorosa, illusione ridondante.
Selezioni i ricordi più belli con l’ambizione di renderli reali e immortali, tenti di afferrarli, vorresti catturarli, sigillarli. Poi, la vibrazione ti arriva alla testa e ti appare chiaro quello che non avevi considerato: la nostalgia.
Così, i ricordi piacevoli diventano tristi. E poi ci sono quelli tristi tristi, talmente tristi da essere insopportabili. Ti spaventano. Cerchi di allontanarli. Vorresti diluirli come pennelli imbrattati nell’acquaragia. L’acqua tinta di rosso, le setole pulite, morbide come il pelo di un persiano. Eppure, sai bene che i ricordi più tristi sono inestinguibili. Tornano e torneranno: sarai soprappensiero, starai contemplando la bellezza di una camelia sbocciata. Avrei potuto dire la bellezza di un tramonto, ma sarebbe stato banale. Banale? Cosa c’è di più tremendamente bello di un tramonto. I colori infuocati declinano e risorgono oltre il visibile. Un moto bifronte e simmetrico, negativo e positivo, un moto eterno che prende e concede. Che muore e risorge. Dove si posa il buio si origina luce.
Ri-corda.
La corda che unisce e stringe, che lega e soffoca. Ricorda anche se vuoi dimenticare. E più vuoi dimenticare e più quelle immagini ti travolgono costringendoti a guardarle meglio.
Si dice che le scatole racchiudano i ricordi. Io ci credo.
Ogni volta che compro un paio di scarpe devo dormirci accanto.
Accanto alla scatola delle scarpe che ho appena comprato.
Mi addormento con lei. Mi risveglio con lei.

Eccola là la mia scatola. Accanto al mio letto, là per terra. La scatola bianca, o gialla o nera o blu. Il colore non è importante, lo è il contenuto.
Capisco. Ora capisco.
Aspettavo i miei otto anni con trepidazione e non per lo stesso motivo delle mie amichette. Aspettavo gli otto anni perché finalmente avrei potuto togliermi quelle orribili scarpe ortopediche. Che tortura! Di cuoio, alte e nere, sempre uguali negli anni e anche nelle stagioni. Di cuoio, alte e nere anche d’estate. Negli anni Sessanta non c’era scelta. Quelle e solo e sempre quelle: di cuoio, alte e nere. In genere erano prodotte artigianalmente.
Il nostro fornitore si trovava nei pressi di Trastevere. L’unica parte lieta, in quel contesto, era il disegno di un adulto.
La mamma mi prendeva in braccio e mi metteva in piedi sopra un tavolo di vetro. Il signore del negozio guardava da sotto il tavolo, guardava i miei piedi, come li appoggiavo. Poi mi faceva salire sopra un grande foglio bianco e con una penna ricalcava la forma sulla carta. Un solletico bianco diluiva il grigiore di quel laboratorio…
Allora non lo capivo, tuttavia crescendo quelle brutte scarpe diventarono una etichetta: un marchio che contrassegnava i bambini con un difetto da correggere.
Di inverno la neve bianca rendeva la sofferenza un fiocco, ma arrivando la bella stagione le compagne sfoggiavano le Canguro, saltellavano con le ballerine, giocavano alle finte schiave con i sandali alla schiava.
Volevo abbandonare le orribili calzature.
Poi ricordo quel giorno. Mia madre mi portò a passeggiare per via del Corso. Non sapevo il perché. Ci piantammo davanti a una vetrina di calzature: fiorivano colori dietro il riverbero del vetro e io guardavo con gli occhi golosi di quelle scarpe come fossero cioccolatini, pasticcini e bignè. Ricordo esattamente quel momento. Non chiedevo. Lei non diceva. Avevo capito, ma non osavo dire.
Se mi fossi sbagliata?
Tutte e due in silenzio.
Oggi penso alle sensazioni di mia madre. Alla gioia di render felice la figlia. Al suo magone che viaggiava su binari paralleli ai miei.
Ancora silenzio.
«Scegli quelle che vuoi, Emma».

Era primavera inoltrata e scelsi i sandali più colorati della vetrina. Erano viola come le viole e con un grappolo di chicchi di paillette sul dorso del piede.
Da allora, non ho altri colori preferiti. Da allora ho dormito e continuo a farlo con accanto la scatola delle scarpe appena comprate.
Mi addormento con lei. Mi sveglio con lei. E ci chiudo dentro i miei sogni.
Emma Saponaro
Semplicemente delizioso …..👏❤
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Grazie, Maria Danila 😊
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