In auto, Rebecca ripeteva a mente le frasi scambiate al telefono, quella stessa mattina, con la segretaria della contessa de Julis. Solo poche parole che avevano formulato un gelido e formale invito e lei, da brava giornalista, curiosa di sapere, di conoscere, non si era sottratta.
Uscì dalla città e percorse ancora per qualche chilometro la Statale 132. Le case si diradavano sempre di più e il verde dei prati era diventato lo sfondo dominante. All’odore dello smog si era sostituito quello dell’erba tagliata di fresco.
Un invito alquanto bislacco, misterioso, ma accettarlo era stata una buona idea, non foss’altro per allontanarsi dalla calura cittadina di quei giorni.
“A rri va ti a de sti na zio ne”, disse la voce meccanica del navigatore.
Rebecca rallentò e, individuata la villa, elegante e imponente, si avvicinò con circospezione.
Non ci fu bisogno di citofonare; una telecamera aveva annunciato il suo arrivo e il cancello già si stava aprendo, cigolante.
Le venne incontro la governante, una signora alta e robusta sulla cinquantina. Aveva indosso un vestito nero con sopra un grembiule bianco in pizzo Sangallo e i suoi capelli di un precoce grigio argento erano raccolti in uno chignon. Le indicò il parcheggio riservato agli ospiti e, una volta in casa, la fece accomodare in uno dei tre salotti del maestoso salone di rappresentanza, il preferito dalla contessa.
Il sole già alto aveva poco accesso in quella grande sala, filtrato da pesanti tende di velluto verde che cadevano generose sopra il marmo gelido del pavimento; in quel posto, sembrava di vivere nella cupezza impietrita dell’autunno.
Si respirava ordine ovunque lo sguardo di Rebecca si posasse. Non un accenno di vita vissuta, né un oggetto fuori posto. Le suppellettili erano indubbiamente originali ma insolite, bizzarre, e perfino illogiche. Nella teca sopra un treppiedi erano disposte con ordine militaresco tre file di gufi. Tutti uguali per forme e dimensioni.
Rebecca estrasse il registratore dallo zaino e, nell’attesa, cominciò a dettare qualche frase descrittiva dell’ambiente avvertendo, nel mentre, un sottile disagio.
Si udirono dei passi e preceduta dalla governante, che le aprì la porta, entrò lei, la contessa. Indossava un abito di pizzo bianco, lungo fino a toccare il pavimento. I capelli di un bianco candido, che scendevano morbidi a coprire l’intera schiena, erano stati spazzolati da poco. Si sedette su una poltrona di velluto ormai liso color oro. Volse lo sguardo da un lato e, senza ancora aver salutato la sua ospite, immediatamente si alzò di scatto avvicinandosi all’étagère di ebano per raddrizzare un libro, l’unico leggermente inclinato.
Tornata a sedersi, finalmente si rivolse a Rebecca e dopo i convenevoli di rito si decise a venire al punto.
«Si chiederà il motivo per il quale l’ho fatta venire fin qui, signorina…»
«Sì, non le nascondo che ci ho riflettuto, ma senza immaginare la risposta. Mi dica…»
«È arrivato il momento della verità. Anche stanotte, mia figlia si è messa in contatto con me. Mi ha detto che apparirà molto presto e spiegherà la causa della sua morte. Non ha pace, poverina. Lei pensa di poter esserci, vero? Si tratta solo di trascrivere ciò che ascolterà. Mia figlia rivelerà anche il nome del suo assassino, anche se io già so chi è stato, l’ho sempre saputo. Così potrà finalmente riposare in pace. Questo è tutto. Pensa di accettare l’incarico? Sarà ricompensata profumatamente.»
La contessa non le aveva concesso pause sufficienti per permetterle di rispondere o interloquire, ma per Rebecca questo non aveva alcuna importanza. Era sorpresa, naturalmente, ma impose a se stessa di rimandare ogni considerazione personale a un secondo momento. Finché era lì, doveva carpire più informazioni possibili. Nell’atmosfera misteriosa che la circondava, doveva pur nascondersi una traccia di verità, di una storia da raccontare.
«Mi dica contessa, ha pensato di consultare la polizia?» Disse Rebecca approfittando del silenzio improvviso.
La contessa si voltò di scatto; era la prima volta che la guardava negli occhi, ma subito fece scivolare lo sguardo verso il basso.
«Sono inaffidabili! Tutti mi credono pazza, ma è giunta l’ora della verità. Così dovranno crederci per forza. Vedranno chi è pazza davvero!»
In quel momento, la porta del salone si aprì ed entrò la governante, lanciando a Rebecca un sorriso ammiccante.
«Venga, contessa, non si stanchi. Dobbiamo prendere la terapia.» Poi, rivolta alla giornalista, le sussurrò: «La segretaria le spiegherà e penserà a ciò che le spetta per il disturbo.»
Racconto finalista al Premio Walter Mauro (2013)