Un equivoco micidiale

Io sono pigro. Molto pigro. Mi piace svegliarmi con calma, intorno a mezzogiorno, poltrire tra le lenzuola e poi, poco alla volta, alzarmi.

Quindi è un po’ un trauma, capirete, svegliarmi alle prime luci dell’alba, legato a una sedia, imbavagliato, di fronte a un uomo con la pistola che mi strilla in faccia. Il peggior risveglio di sempre, senza dubbio.

«Stai scomodo, Roberto?» sta urlando l’uomo con la pistola. «Sei legato troppo stretto? Non preoccuparti, tra poco non sentirai più niente!» Ride. «Finalmente siamo alla resa dei conti, Roberto. Tu mi hai preso tutto. Mi hai rovinato la vita. E ora io mi prenderò la tua. La tua vita.»

«Nnn mchmmm Rbrttt» mugugno.

«Ah! Roberto, è inutile che cerchi di parlare, tanto col bavaglio non ti capisco!»

Ma chi è questo Roberto? Cretino, hai sbagliato persona. Io non sono Roberto!!!
Come diavolo faccio a farglielo capire?.

Sarà uno scherzo. Non è possibile odiare una persona al punto da volerla uccidere e scambiarla per un’altra. Di sicuro si accorgerà dell’errore. Dai, guardami bene, bestiaccia. Su, su, lo vedi che non sono io? Oddio, non riesco più a respirare. Devo rimanere calmo, non farmi prendere dal panico e, soprattutto, non devo farmi vedere impaurito. O forse sì? Non lo so che caspita devo fare. Sto male, sto malissimo,  mi manca il respiro.

E adesso cosa sta facendo? Avvita il silenziatore. Ma questo qui vuole fare sul serio.

«Non soffocare, Roberto, ti voglio uccidere io. Voglio completare l’opera mettendo la mia firma. Stai calmo, non ti agitare troppo, tra poco sarà tutto finito».

La mia vita è finita! È giunta la mia ora, e per uno stupido, fottuto, maledetto equivoco. Chissà questo Roberto cosa gli avrà combinato per farsi odiare così. È inutile, è tutto inutile. Non riesco a fargli capire neanche una sillaba. Più mi lamento e mi sforzo, più lui gode di questa mia agonia. No, devo solo aspettare e sperare che succeda qualcosa. Ma cosa deve succedere? Giusto un miracolo ci vorrebbe.

«Roberto, non ti lamenti più? Bravo. Così si fa. I veri uomini affrontano il loro destino con coraggio. Costi quel che costi».

Un incubo. No, peggio di un incubo. Sto andando incontro alla morte, alla mia morte con piena coscienza e lucidità. E non c’è cosa peggiore. Accidenti, sto avvertendo un certo… Sono sudato, ovunque. Là fuori saranno cinque gradi sotto zero e io, in canottiera, sto sudando. E ora cosa fa? Fuma. Pensavo che fosse il condannato a morte a fumare l’ultima sigaretta, e non il giustiziere. Mah… A questo punto non vedo l’ora di chiudere gli occhi e non sentire più niente. Voglio il nulla, voglio raggiungere la fine con la velocità di una pallottola, non voglio più aspettare, voglio morire adesso, perdio!!! Cosa aspetti, dai, spara!

«Non avrai mica paura, eh? Sei diventato paonazzo. Che ti succede, Roberto, sei impaziente di morire?»

Sì, certo, sono impaziente, mettiti tu qui al posto mio, idiota, e dimmi come ti senti. Ecco, ha pure spento la cicca sul pavimento. Ma cosa importa, ormai. Non importerà neanche a Teresa. Già, Teresa… aprirà la porta e scoprirà il mio corpo inerte, insanguinato. Povera Teresa… Mah… Teresa!!! Mi doveva svegliare per l’appuntamento con il medico, giusto. Beh, mezz’ora sarà passata, quindi dovrebbe chiamare a momenti. Forse una speranza c’è. Risponderà lui; si accorgerà che sta per uccidere l’uomo sbagliato e io sarò salvo. Teresa ti amo!!!

«Sei pronto, Roberto?».

E ora cos’è tutta questa fretta? Su, su, fumati un’altra sigaretta, bevi qualcosa, fai pure come se fossi a casa tua. Tra poco Teresa chiamerà e tu mi chiederai anche scusa.

«Guardami in faccia, voglio centrarti la fronte, Roberto»

«Mmmrrhhhh ghhhhggrrrrr» ho ripreso a mugugnare.

«Zitto. Un colpo e via e…»

Drin… drin

Lo sapevo. Teresa, mia cara, sapevo che mi avresti salvato. Vita mia, quanto ti amo… Ma… ma non risponde? Che fa? Noooooo.

«Pronto?»

«Sono Teresa, ma…»

«Mi hai riconosciuto, vero?»

«Cosa ci fai a casa di…»

«Hai commesso un grave errore. Hai scelto lui e ora rimarrai da sola»

«Marcello, cosa hai fatto? Sei impazzito? Passami Luca, subito!!!»

«Non posso. Sta dormendo come un angioletto con un bel forellino in fronte. Sapessi che goduria chiamarlo con un altro nome… penso che abbia sperato fino alla fine… Addio tesoro, abbi cura di te».

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Scritto da Emma Saponaro per la quarta edizione del concorso “Turno di notte” indetto dalle Officine Wort. L’incipit, in grassetto, è dello scrittore Gianluca Morozzi.

Senza tempo

Fu la musica a svegliarlo.
Aprì gli occhi e si guardò intorno sconcertato.
Era sdraiato sul pavimento di un’osteria dalle volte altissime, di pietra, con bottiglie, bottiglie e ancora bottiglie, un clima fresco da cantina, le luci basse. Solo, non ricordava di esserci mai entrato. Anzi. Non ricordava proprio nulla. Il suo passato recente. Il suo passato remoto. Neppure il suo nome.
Niente finestre, in quell’osteria. Solo una scala che portava di sopra.
Si rizzò in piedi. E si sentì raggelare.
C’era un uomo riverso per terra, faccia in giù al centro del locale, in un lago di sangue. Al suo fianco, una bottiglia rotta.
Dietro il bancone una ragazza. Aveva un costume da Wonder Woman, era legata a una sedia e imbavagliata, gli occhi chiusi. Forse dormiva, forse era svenuta, forse era morta.
Dalla radio usciva una canzone di Vasco Rossi. Diceva… Io sono ancora qua, eh già!
In quel momento sentì i passi sulle scale.
Si nascose dietro il drappo di una tenda di velluto verde, che scendeva, polverosa e pesante, fino a toccare il pavimento umido. Circondato dal buio quasi totale, riuscì a posizionarsi tra due pile di casse di birra. Andò a tentoni oltre le casse, ma si rese conto che il suo spazio era finito lì. Oltre, c’era il muro, umido anch’esso. Immobile, tentava di reprimere un affanno doloroso, che quasi gli squarciava il petto. Dove si trovava? Chi aveva ucciso quell’uomo? Chi era quella donna? Tra l’assoluto stordimento, si sentiva sequestrato da se stesso.
Scesero due uomini e dalle loro parole sbiascicate si intuiva che avevano abusato di alcol. A giudicare dalle voci, si trattava di un uomo di mezza età e di un ragazzo.
«Dobbiamo farlo sparire, poi penseremo a lei. Prima, però, un goccetto non guasta» Così dicendo, l’uomo stappò due bottiglie di birra, e ne porse una al suo amico.
«Ma che cazzo s’è messa addosso questa cretina?» chiese il ragazzo con voce spavalda, il cui percettibile tremore tradiva uno stato d’ansia.
«Fai sempre domande. Non hai ancora capito che al capo piacciono certi giochetti erotici?»
«Eh! È bello vedere Wonder Woman legata con la sua stessa corda. In effetti… un pensierino ce lo farei anche io»
«Smettila! La ragazza è proprietà esclusiva del capo, lo sai benissimo. Facciamo presto, prima che riprenda conoscenza»
«Proprietà esclusiva del capo! E questo babbeo, secondo te, chi è?»
«Il fidanzato non conta, lascia perdere. E poi ficcava troppo il naso negli affari degli altri»
«Per un bocconcino così, ce lo ficcherei anche io… il naso»
Si sentiva avvolto sempre più da una sensazione claustrofobica. Più ascoltava quelle parole volgari e più sperava di non appartenere a quella specie di genere umano.
La confusione mentale non accennava a diminuire. Si sentiva in apnea.
«Se l’è cercata. Doveva tenersi alla larga da questa faccenda, come gli era stato già detto»
«Sì, ma squartarlo così, come un vitello…»
«Bevi ragazzo, bevi»
Era finalmente riuscito a rallentare il ritmo cardiaco, procedendo con respiri profondi e silenziosi. Scostata la tenda di velluto di qualche centimetro, potè vedere la ragazza. La sua pelle sembrava porcellana, e i capelli neri seta; erano lunghi e, trattenuti da una coroncina dorata, mostravano il volto della giovane donna. La sua bellezza non comune gli provocò un fremito che lo portò a reagire: sentiva l’istinto di proteggere la ragazza, di certo ostaggio di quel mondo di delinquenti.
La paura aveva ceduto il passo alla rabbia e al coraggio. Doveva fare qualcosa, però si sentiva frenato, bloccato.
«Finisci di pulire, non possiamo toccarlo se non togli tutto questo sangue. Senti, vado a prendere il telo»
Scostò il drappo per guardare la situazione. Vide il ragazzo chinarsi e poi velocemente rovistare nelle tasche della giacca del cadavere. Tirò fuori un portafoglio di cuoio dal quale estrasse tutte le banconote che trasferì nella tasca dei suoi jeans. Poi trovò anche un oggetto che alzò per osservare meglio: era un vecchio orologio da tasca con catena d’oro.
Si sentì trafiggere da un getto d’aria gelida, che in un istante spazzò il caos dalla sua mente. L’orologio si era fermato, ma lui continuava a star lì, a guardare, a patire.
Solo un istante per capire che non c’era più tempo. Uscì fuori dalla tenda, come fa un attore quando saluta per l’ultima volta il suo pubblico. Sentiva il passo leggero, e il gelo si era dissipato. Non sentiva più niente. Una volta avvicinato alla ragazza, la avvolse con un abbraccio impalpabile, sussurrandole: «Ti amo, ti ho sempre amato, Clelia»
Io sono ancora qua, eh già!

Scritto da Emma Saponaro per la terza edizione del concorso Turno di notte indetto dalle Officine Wort. L’incipit, in grassetto, è dello scrittore Gianluca Morozzi.

Torta Paradiso

Ogni anno, Filiberto vuole festeggiare il suo compleanno con la Torta Paradiso, il suo dolce preferito, e ogni anno io la preparo e lui finge di rimanerne sorpreso. Arriverà tra due ore e il dolce sarà tiepido come piace a lui. Nel sistemare l’occorrente sul tavolo, mi accorgo che manca un ingrediente fondamentale: la farina. Accidenti! È una domenica di agosto, i negozi sono chiusi, il palazzo è deserto e io… io sono disperata.
Filiberto è andato a pranzo da sua madre. Come ogni anno, lei desidera festeggiare questo giorno sola con lui, per celebrare non tanto il giorno della sua nascita ma quello in cui lei divenne madre. È una donna egoista e detestabile. Per non sentirla, Filiberto preferisce assecondarla, basta che al rientro a casa, festeggi con me e con la Torta Paradiso, ormai è un rito. Ma non quest’anno!
Però forse Dora, la portiera, può aiutarmi.
Scendo al piano terra, suono il campanello. Mi accorgo che la porta è socchiusa e, non ricevendo nessuna risposta, avanzo di un passo solo per farmi sentire: – C’è nessuno in casa? – Nessuna risposta. Non insisto e risalgo nel mio appartamento. Decido di telefonare a Filiberto per proporgli un dolce alternativo, sperando che accetti senza porre troppe domande. Dopo aver composto il numero, una voce registrata mi informa che il cliente da me desiderato non è al momento raggiungibile. Il solito distratto: avrà il cellulare ancora spento. Sono costretta a telefonare a mia suocera che mi informa con tono spietato che Filiberto non è andato da lei. Come può essere possibile? È uscito da tre ore. Mi affaccio e scorgo la sua auto ancora parcheggiata sotto casa. Non capisco e tanto basta per farmi cadere vittima di una preoccupazione allarmante.
Scendo di nuovo da Dora, forse ora sarà rientrata. Il cuore pulsa forte e sembra uscire dal petto e l’afa mi toglie il respiro.
La porta è sempre accostata. – Dora? – urlo questa volta. Cedo all’ansia. Sono sola e potrei cadere vittima di aggressioni o di rapine senza che nessuno se ne accorga. E di Filiberto nessuna traccia. Non ho alternative: mi inoltro nel piccolo appartamento. Bastano tre passi e sono già in cucina.
Quello che si presenta davanti ai miei occhi è uno spettacolo raccapricciante. Mi sento svenire. Non più di ansia si tratta. La nausea sale velocemente, stringendomi la gola e comprimendo il petto. È inevitabile che svuoti completamente lo stomaco. Dora giace supina sul tavolo della cucina; le è stata amputata una gamba. A terra un’enorme pozza di sangue. Continuo a rigettare ormai solo succhi gastrici. L’odore è nauseabondo, lo spettacolo disgustoso. Decido di andar via velocemente. Ho paura, riesco a respirare a malapena, chiudo la porta con quattro mandate sopra, tre sotto, più il chiavistello. Avanzo verso il telefono, sto per afferrarlo quando mi accorgo che è sporco di sangue. Qualcuno ha già… Il panico mi impedisce di riflettere ma non di decidere di scappare. Afferro le chiavi dello scooter e maledico la scrupolosità con la quale ho serrato la porta.
– Claaaraaaa
La voce tonante di Filiberto che proviene dalla cucina mi fa sobbalzare, però mi conforta sapere che sia in casa. Corro da lui per riferirgli quello che ho visto. L’espressione sconvolta di Filiberto mi blocca. È strano: è astemio, ma tiene in mano un calice con del vino di un rosso intenso, talmente corposo che gli ha tinto le labbra. Mi accorgo che la sua camicia è macchiata di sangue e lui ha uno sguardo di ghiaccio perso nel vuoto e le labbra, imbrattate di rosso, accennano un ghigno. È irriconoscibile. La scena agghiacciante della povera Dora è svanita e l’attenzione è concentrata tutta verso lui.
– Cosa ti è successo, Filiberto?
Non risponde, il ghigno esplode in una risata diabolica. Non capisco. Lo guardo e comincia a parlare: – Un compleanno così non lo dimenticherò mai. – risponde continuando a fissare il vuoto davanti a sé – Come è buona Dora, amore mio!

by Emma Saponaro

Questo racconto è stato selezionato per l’antologia “La paura fa 90”

foto tratta dal web