19 marzo 1837 – Piazza della Rotonda

«Nine’, ‘ndo cori!?»
«Daje, sbrighete, ‘a gente core pe’ ariva’ prima.»
«‘Nte preoccupa’, basteno pe’ tutti.»
«Movite che rimangheno quelli fritti nell’olio ‘nzozzato.»
«So’ boni uguali. Fermate, guarda ‘sta bella cchiesa rotonna…»
«È ‘n tempio!»
«Quello che è, annamola a visita’, ‘e frittelle possono aspettà.»
«Er Pantheon sta sempre qua. Mó guarda li fochi, i lanternoni, er profumo che t’acchiappa. Nun c’hai voja de ‘ngozzatte de ‘ste bontà divine?»
«T’aspetto qua, portame tre bigné. ‘Sto capolavoro se vede mejo a panza piena. Potemo prega’ Giuseppe senza confusione, così capisce mejo che c’è ancora tanta gente che nun magna mai.»

di Emma Saponaro

 

roma a tavola in cento parole

La barriera sottile – finale

(leggi parte prima e parte seconda)

Dopo una lunga passeggiata tra i vicoli di quel paese dimenticato da Dio, il cielo ormai prossimo al tramonto e l’aria frizzante convinsero Rebecca a recuperare la sua auto. Con il tablet in mano, non riusciva a scrivere una parola. Non riusciva ad estraniarsi dalle emozioni di quella giornata. Con gli occhi puntati sullo schermo ancora spento, ripensava a sua nonna, alle storie fantastiche che le raccontava di nascosto dei suoi genitori. “Posso raccontarle solo a te” diceva sempre, e lei non ne comprendeva il motivo, ma sapeva di dover tener ben segreto tutto ciò che la nonna le confidava. Era convinta che esistesse una città progettata dagli spiriti, e che esistessero universi paralleli che comunicavano tra loro; ma questa era una cosa troppo difficile da capire per una ragazzina, dunque le avrebbe spiegato tutto quando sarebbe diventata donna. Poi la nonna morì e Rebecca non seppe mai cosa intendeva rivelarle su quel mondo là. Eppure i ricordi le riaffioravano limpidi, e limpide le immagini delle reliquie in quella casa. Strani oggetti che assolutamente non dovevano cambiar di posto, mai, per nessun motivo. Ogni cosa doveva rimanere nella sua collocazione perfetta, benché apparentemente disordinata.
Il fragore di un tuono la destò dai suoi pensieri, dai ricordi, dalle domande senza risposta. Guardò in su, verso il cielo, perplessa. Nell’oscurità, brillavano le stelle, e in quella sfera infinita si abbandonò, dimenticando le paure dentro di sé, come l’impercettibile parte di un mondo incomprensibile.
Non recepiva più l’assurdità di quel boato, piuttosto ne intuiva il senso.
Doveva muoversi, doveva fare qualcosa.
Riattivò il navigatore sull’ultima destinazione. Stavolta parcheggiò sul ciglio della strada sterrata, a un centinaio di metri dalla villa.
Cercò un pertugio nel muro di cinta, ma non ve ne erano. Individuato un albero, si arrampicò e con l’aiuto di un ramo robusto riuscì ad arrivare fin sopra al muro. Lo percorse da vera equilibrista fino ad arrivare alla parte più bassa, da dove si lasciò scivolare a terra con sorprendente eleganza.
Al mattino non aveva notato la presenza di cani, quindi si avvicinò alla porta di casa con tranquillità.
Il salone era illuminato e le finestre erano aperte. Sbirciò attraverso le tende di velluto e vide la governante seduta su una poltrona, con il capo inclinato all’indietro. Un libro aperto sembrava stesse scivolandole dalle mani.
Rebecca non ci pensò due volte. Approfittando del momento scavalcò la finestra, ben attenta a non far troppo rumore.
Giunta fin quasi all’ingresso, udì un tonfo. Il libro era caduto dalle mani della governante che si svegliò all’improvviso. Nella penombra, Rebecca sgattaiolò in silenzio e si nascose dietro un mobile alto abbastanza da poterla coprire, un cupo orologio a pendolo. I rintocchi improvvisi che annunciavano la mezzanotte la fecero sussultare. Emise un grido che tentò inutilmente di soffocare.
La governante si guardò attorno, ripose con scrupolo e lentezza il libro nell’unico spazio vuoto che disturbava l’ordine compatto dei libri. Con altrettanta lentezza salì le scale per accertarsi che la contessa continuasse a dormire. Poi scese di nuovo al piano terra. Il respiro affannoso di Rebecca non accennava a rallentare. Avvertì un brivido gelido lungo la schiena, ma rimase immobile.
La donna le passò accanto, dandole le spalle, e subito dopo si bloccò. Era a un metro da lei. Con una mano si sciolse i capelli, sfilando la forcina di osso che ripose nella tasca del grembiule. Poi, di scatto, si voltò.
Lanciò uno sguardo algido che si posò direttamente su quello della ragazza. Un silenzio imperscrutabile dialogò per loro.
Rebecca fece appena in tempo a notare che la governante teneva un braccio dietro la schiena. Tentò di scappare, ma la donna l’agguantò per la gola con una mano, scaraventandola contro la parete, poi con un gesto rapido alzò l’altra in alto. Lo scintillio della lama rifletteva la luce del salone ancora accesa come lo scintillio degli occhi della governante rifletteva la furia che le montava in corpo.
Con violenza feroce, inflisse un colpo al ventre della ragazza, e dopo il primo un altro e un altro ancora.
Un dolore atroce, un grido straziante. Rebecca sentì il sangue sgorgare caldo al ritmo del suo cuore, le forze abbandonarla. Scivolò lungo la parete e si accasciò in una pozza rossa che si espandeva sempre più sul pavimento di marmo.
La barriera sottile fra quei due mondi stava perdendo consistenza e la sua esistenza non bramava più se non l’oscurità, il nulla.
Con dissacrante apatia, la governante lasciò cadere il pugnale, si accovacciò davanti a lei e osservò con una smorfia di eccitazione il suo volto sbiancato. L’afferrò da sotto le braccia per trascinarla in cantina e la sistemò accanto a una larga botola.
«È inutile che continui a tornare qui. Tutto questo sarà mio quando tua madre finalmente creperà!»

Emma Saponaro

La barriera sottile – parte seconda/3

(leggi la prima parte)

 

Congedatasi dalla villa, e risalita in auto, Rebecca non riusciva a staccarsi da tutto ciò che aveva respirato fino a un momento prima: il gelo, il grigiore di quell’incontro, respirato e trattenuto.
Spense il navigatore, sul quale aveva impostato l’indirizzo del suo ufficio, e decise di concedersi un giorno di libertà. Aveva un assoluto bisogno di alleggerire il proprio umore.
Estratto il tablet dallo zaino e individuato il paese più vicino, a pochi chilometri di distanza, si diresse lì.
Poche e minuscole case in pietra arroccate su un clivo la riportarono bambina, quando andava a far visita alla nonna materna, Iole, una donna moderna ed eccentrica per i suoi tempi, sempre elegante, con l’irrinunciabile colore nero dei vestiti che contrastava con la luminosità dei suoi occhi azzurri. Ancora giovane quando rimase vedova, aveva iniziato a viaggiare per conoscere il mondo. Nella sua casa, e specialmente nello studio, erano raccolti cimeli provenienti dai luoghi più sperduti della Cina e dell’India.
Rebecca lasciò l’auto ai piedi del paese e iniziò a salire, incuriosita.
Si erano fatte già le due e tra i vicoli angusti non riusciva a trovare un locale aperto, finché, voltando un angolo, si scontrò con una anziana signora che tratteneva a fatica tra le braccia delle bottiglie di vino.
«Oh mi scusi, signora, ero distratta e…»
«Per fortuna non sono cadute…» rispose l’anziana con un sorriso.
«Dia a me, l’aiuto.»
«Benedetta gioventù! Ma dove andrete con tutta questa fretta!?»
«Nessuna fretta,» rispose Rebecca ricambiando il sorriso, «posso approfittare della sua gentilezza per chiederle dove posso mangiare? Non conosco il paese e non riesco a…»
«Sono stanca e la strada, lo vedi da te, è tutta in salita. Quegli sciagurati non si sono degnati di accompagnarmi. Sai, conservo il vino buono in un grottino, ma è troppo distante per la mia età. Tu accompagnami a casa e io ti faccio assaggiare le tagliatelle più buone della tua vita.»
«Ma no, la ringrazio, non vorrei disturbare.»
«Nessun disturbo. Stiamo festeggiando il compleanno di mio marito e ho preparato talmente tanta roba che mi piangerebbe il cuore buttarla.»
Rebecca si ritrovò seduta a una grande tavola imbandita a festa, in compagnia di una decina di commensali. L’accoglienza di quella gente fu talmente genuina che il suo imbarazzo iniziale svanì in un attimo. Le tagliatelle della signora erano davvero squisite e le stava assaporando con un gusto che non ricordava da un bel po’ di tempo, dimenticandosi di quel velo tetro che aveva oscurato il suo umore, fino a quando un brindisi in suo onore la riportò col pensiero alla contessa. Così, pensò di approfittare dell’occasione per avanzare l’argomento.
«Conoscete per caso la contessa de Julis?»
All’improvviso cadde il silenzio, gli sguardi si abbassarono e Rebecca sentì tornare quella sensazione di gelo che l’aveva avvolta nell’atmosfera impenetrabile della villa.
L’anziana signora le si avvicinò, schiarendosi la voce e increspando le labbra.
«No, cara, nessuno la conosce, qui.»
Usciti dall’imbarazzo, i commensali ripresero a poco a poco ad animarsi, dal mormorio iniziale al chiacchiericcio festoso che si era temporaneamente interrotto.
Rebecca non aveva insistito, ma sentiva il bisogno di scrivere qualcosa. Non una cronaca, piuttosto avvertiva l’impulso di buttar giù le sue sensazioni.
Si alzò, ringraziando per la speciale e gradita ospitalità e si diresse all’uscita, seguita dall’anziana signora.
«Chi ti ha nominato quella persona là?»
«Oh, non fa nulla. Era solo una curiosità. Non ricordo se ho letto qualcosa su di lei o se qualcuno me ne abbia parlato», rispose in fretta Rebecca, torturandosi una ciocca dei capelli.
«Sii prudente, tieniti alla larga da quella casa.»
Lo sguardo interrogativo di Rebecca non trovò risposta; l’anziana abbassò gli occhi, voltò le spalle e richiuse la porta.

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Dove il tempo si è fermato

Roma in cento parole, a cura di Alessio Dimartino

Fiotti di turisti si concentrano nella piazza. Mi manca l’aria.
– Chiudi gli occhi, dammi la mano e lasciati guidare.
Accetto. Mi lascio trasportare e sento il chiasso dissolversi. Ci fermiamo. Apro gli occhi.
Sono entrata in un’altra dimensione, dentro una cartolina di fine Ottocento. Avvolta dai colori della Roma papalina, sento il silenzio musicarsi di mandolini. Osservando il cortile circondato da casette, penso alla scena finale del Rugantino, quando lui, sul punto di esser giustiziato per mano di Mastro Titta, viene deriso dai principi Capitelli. “Morì ammazzato pe’ ‘na donna? Ma si può essere così fregnoni?”.
In via del Pellegrino, il tempo si è fermato.

Emma Saponaro