
Già dai tempi del liceo, Jamila mi affascinava in modo totalizzante: capelli corvini e lisci raccolti in una lunga treccia, grandi occhi neri, pelle d’ambra che immaginavo fosse liscia come la seta. Camminava con la grazia di una ballerina classica, elegante e fiera. Delicatezza e garbo caratterizzavano il suo modo di fare; mai una parola volgare né un gesto fuori posto. Non era autocontrollo il suo, ma uno stile del tutto naturale e spontaneo. Ricordo altro di lei. Nonostante le sue labbra fossero generose di sorrisi, era difficile non scorgere una vena di malinconia nel suo sguardo profondo.
Dall’ammirarla all’innamorarmi il passo fu molto breve. Ebbi modo di accedere alla sua amicizia, così iniziai a frequentarla e i veli della sua compostezza, che discretamente l’ammantavano, lentamente caddero, svelando il mistero del suo sguardo e la bellezza della sua persona.
I nostri incontri divennero sempre più frequenti, dando modo allo scambio d’idee e di emozioni di rafforzare il rapporto. Mi sentivo così attratto da lei, dalle sue parole non dette, dai suoi sguardi distolti che, pur essendo incuriosito da ciò che il suo cuore celava, non le ho mai chiesto niente rispettando i confini della sua intimità.
Non dimenticherò mai il suo primo bacio. Era agitata e impacciata, forse anche intimorita. Quel giorno camminammo più di un’ora per trovare il luogo adatto al nostro bacio. Poi, senza che me lo aspettassi, prese lei l’iniziativa: afferrò la mia mano conducendomi tra le fronde di un salice piangente. Provai tenerezza, gioia e tanto amore. Indimenticabili rami, così morbidi e flessuosi, che creavano un’atmosfera surreale e magica che non tardò a trasportarci in un’altra dimensione. E ancora non sapevo che quei manti di fogliame avrebbero protetto i nostri baci per molto tempo ancora. Divenne, infatti, il nostro luogo segreto; nascondiglio perfetto per non svelare il nostro amore. Però qualcosa mi sfuggiva. Sinceramente, quell’amore così grande avrei voluto gridarlo al mondo. Invece, per amor suo, non opponevo resistenza, ma anzi la seguivo, complice, fedele ostaggio del suo volere, abbandonandomi a sotterfugi e uscite clandestine. La amavo troppo per contrastarla. Ero sicuro che l’incomprensibile fosse solo apparente, che a tutto ci sarebbero state valide spiegazioni, anche se per il momento mi erano del tutto oscure.
Dopo un lungo anno di attesa, finalmente tutto assunse un nuovo significato che ci permise di uscire dalle fronde e dai segreti.
Jamila, quel giorno, mi portò tra le braccia del salice piangente e cominciò a parlare ininterrottamente della sua vita.
«Proprio in questo punto si baciarono per la prima volta i miei genitori. Papà era ancora studente di Medicina quando mamma si accorse di aspettare me e decise di lasciare gli studi liceali. Si sposarono e nacqui io. All’età di quattro anni, quando papà era diventato da poco medico, decisero di portarmi dai miei nonni paterni, a Teheran. Da lì cominciò tutto. Mio padre, dopo lunghi anni di assenza, appena entrò in contatto con le sue origini, si svelò per quello che aveva deciso di non essere più: riabbracciò fedelmente l’Islam e di conseguenza diede un nuovo significato al sentimento di amore che lo aveva unito a mamma, e a me. Mi iscrisse alla scuola coranica e obbligò mia madre a indossare il chador. Ero piccola per ricordare il vero significato di ciò che mi circondava, eppure non ho mai dimenticato la sofferenza di mamma, la respiravo ogni giorno. Sembrava non fosse più lei. I suoi occhi, unica parte del viso che potevo intravedere, avevano perso il trucco e l’allegria. Mi apparivano spenti, spesso arrossati da un pianto nascosto o represso. Non sapevo ancora, non potevo sapere che trattenevano, seppur con sofferenza e caparbietà, speranza anziché rassegnazione. Avevo pochi contatti con lei.
Ero accudita da mia nonna e da mia zia, la sorella di papà. Mamma era quasi relegata, come se nessuno della famiglia si fidasse di lei, l’occidentale, la donna moderna e con strane idee per la testa. Ma io l’amavo tanto; e più l’amavo e più mi mancava.
Era forse il suo sguardo spento e triste che infondeva in me un dubbio; insinuava nel mio cuore il sospetto della giustezza di ciò che ci insegnavano a scuola. Lo avevo capito. L’amore mio verso di lei e l’apatia sua verso la vita di quel momento sono riusciti a sottrarmi da quel destino così diverso e così difficile e complicato da comprendere.
Un giorno come tanti altri uscii da scuola alla solita ora e, appena svoltato l’angolo, mi sentii afferrare bruscamente e scaraventare nel sedile posteriore di un’auto. Ero terrorizzata e mi coprii gli occhi con le mani tremanti. Altre mani afferrarono le mie e tentarono di liberarmi gli occhi. Non avrei mai immaginato che a rapirmi fosse stata proprio la mamma. Fuggimmo via con il cuore in gola, terrorizzate da un futuro incerto e ignoto.
Viaggiammo su dorsi di cammelli, a bordo di carretti, di jeep e, per ultimo, di una nave. Solo in un secondo tempo capii che la sua apatia nascondeva ribellione, e la sua docilità un piano al quale aveva faticato a lavorare per alcuni anni, perché erano poche le volte in cui le era permesso di uscire da sola, e in quelle occasioni era riuscita a contattare una organizzazione clandestina. Lei non si era mai arresa, non si era mai rassegnata a cedere la sua vita senza prima non aver tentato l’impossibile.
Durante il lunghissimo viaggio, non scoprì mai il viso dallo chador e non capivo il perché, ma, in compagnia del silenzio eloquente, benché desiderassi ardentemente riappropriarmi del suo volto, non ho mai osato chiederle nulla.
Passarono molti giorni prima che giungessimo, stremate e sporche, nel nostro paese e mamma continuava a mantenere il volto coperto. Ormai potevamo finalmente dire di essere salve e completamente fuori dall’incubo di una vita che non ci apparteneva. Ma una volta giunte in paese, il nostro cammino aveva preso la direzione opposta a quella che ci avrebbe condotto alla nostra casa. Avevo intuito. Mamma afferrò la mia mano e mi portò fin qui, sotto questo salice piangente. Ci mettemmo una di fronte all’altra io emozionata e lei, piena di orgoglio e felice di essersi riappropriata della sua vita, iniziò il rito. Guardandomi, si denudò lentamente dal velo e il suo sguardo materno, espansivo e gioioso non lasciava spazio alle parole. Affamata, mi nutrii del suo viso, per troppo tempo negato, e poi ci abbracciammo piangendo, ammantate dal solo fruscio delle fronde dell’albero. Questo albero: è qui che nasce una vita, un amore, una speranza!».
Emma Saponaro
Nella foto, gli occhi miei e di mia figlia.
Questo racconto ha partecipato al concorso letterario “Idea Donna” ricevendone il Diploma di Riconoscimento speciale.
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